Ma come si spiega la guerra ai bambini?
Come spesso accade, un’immagine ha la forza di molte parole. E anche se in queste ultime settimane ne sono scorse tante e di così feroci, ce ne è una che mi è rimasta impressa più di altre, forse perché ai miei occhi riassume l’orrore della violenza ma anche la forza dei bambini, il loro diritto ad esistere, a crescere, a studiare. Provo a descriverla: al centro della foto c’è una bambina piegata su un cumulo di macerie, avrà una decina d’anni, forse meno, un viso aperto, lo sguardo però non lo vediamo perché lei è lì, in piedi sopra i sassi e le travi che un tempo, uniti, chiamava «casa», la sua casa. È piegata, concentrata, sta cercando di spostare i detriti per riappropriarsi di ciò che evidentemente reputa prezioso più dei giocattoli. I libri. Ne tiene già qualcuno su un braccio, ma non demorde e va avanti nella ricerca. Rivuole il suo futuro.
Facile riandare con la mente a Malala, la ragazzina premio Nobel per la pace, simbolo della battaglia per il diritto allo studio. E domandarsi fino a quando bambini e ragazzi dovranno pagare le scelte violente degli adulti.
I fatti dell’ultima settimana, l’«11 settembre francese» come qualche notista ha ribattezzato il 7 gennaio, pone sul tavolo degli adulti anche la questione di come spiegare quanto accaduto, sapendo che le parole pesano. In molte scuole, maestri e insegnanti hanno affrontato gli orrori francesi di questi giorni. Hanno cercato di spiegare cosa è successo il 7 gennaio e i giorni a seguire, e perché domenica a Parigi molti leader del mondo hanno voluto sfilare insieme, in una marcia simbolica, e due milioni di francesi si sono dati appuntamento nella capitale e hanno riempito strade e piazze per dire «no» alla paura, in nome della pace e della tolleranza.
Bene hanno fatto quegli insegnanti (e i genitori e i nonni…) a non nascondere la notizia perché parlare, confrontarsi, ascoltare i ragazzi è indispensabile soprattutto quando accade un episodio traumatico, scioccante. Senza contare che le nostre scuole sono sempre più multietniche, e i fatti di Parigi mettono a dura prova la volontà di integrazione, inutile negarlo. Quindi bisogna lavorare di più in tal senso, e dare l’esempio, che è il miglior discorso possibile. Meglio ragionare insieme ai ragazzi e ai loro famigliari, come hanno fatto ad esempio in una scuola di Milano, che raccoglie 56 etnie diverse e una folta comunità musulmana.
In tutta Italia, genitori e professori con gli alunni, o i ragazzi per conto proprio, hanno prodotto immagini postate su Facebook, forti e allegre, dove bambini tenevano in mano matite colorate indicando Parigi sulla cartina geografica, dove si abbracciavano giovanissimi di diverse etnie, dove si coniugava «Sono Charlie» nei modi più disparati.
Quello che cerco di dire è che l’orrore arrivato nelle nostre case da tutti i tg va affrontato, va “spiegato” senza pregiudizi ai nostri figli e nipoti. Che insieme all’orrore arriva la paura, umana ma pericolosissima. Che la tentazione di irrigidirsi e giudicare c’è, è naturale e va combattuta. Che spiegare la guerra ai bambini è arduo compito, ma va fatto proprio per non bloccarsi in paure inconsce o consce. La bambina che fruga nelle macerie in cerca dei suoi libri è un monito per noi adulti, perché ci ricorda che loro, i ragazzi, vogliono vivere facendo ciò che gli spetta di diritto, ovvero giocare, studiare, crescere sani, pensare a un futuro, essere protetti e rispettati, non venire sfruttati o usati.
L’autore del massacro nel negozio kosher di Vincennes puntava a compiere una carneficina in un asilo ebraico. Cosa avremmo dovuto vedere? Ancora una volta sarebbero stati i bambini a pagare l’idiozia umana. Il governo francese ha messo in campo 5mila agenti per la protezione delle scuole ebraiche, anche a Roma sono stati rafforzati i dispositivi di sicurezza al ghetto e alla scuola ebraica. Giusto, indispensabile. Ma insieme alla protezione, occorre lavorare sempre di più contro il contagio dell’intolleranza, proprio sui bambini perché abbiano consapevolezza, spirito critico ed esercizio ad accettare l’altrui diversità.
Le cronache ci dicono che in Siria come in Iraq, bambini e ragazzi vengono cresciuti nei “vivai” dell’Isis dove forgiano le future leve del Califfato e dove le bambole vengono usate come cavie nel corso di decapitazione. Vengono insegnate le tecniche per uccidere, cominciando dagli stessi compagni di “corso”, quelli che magari hanno provato a scappare. In Pakistan, Yemen, Somalia… ahimé in molti altri Stati ci sono veri e propri programmi di reclutamento dei bambini kamikaze. Le associazioni umanitarie parlano di 300mila di età minore di 14 anni nei vari continenti. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha denunciato almeno 700 bambini uccisi o mutilati in Iraq dall’inizio dell’anno ad oggi, vittime anche di esecuzioni sommarie. Sempre di più ragazzini (e anche qualche ragazzina) sono cooptati nelle file della guerriglia come cecchini, barellieri, kamikaze.
Le loro storie hanno una sola dominante: la violenza. La stessa violenza che avrebbe fatto esplodere un asilo a Parigi, che ci obbliga alla conta dei morti, che porta allo scontro anziché alla mediazione e all’accettazione delle diverse culture, religione, storie.
Occorre che gli organismi competenti mettano in atto politiche di difesa dei minorenni in tutte le zone dove conflitti e intolleranza stanno avendo la meglio. Occorrono più risorse. Occorrono programmi di recupero. E da noi in Italia, occorre lavorare ancor di più sull’integrazione, sulla forza delle differenze, sul rispetto della Convenzione sui diritti dei bambini e dei ragazzi. Scuole, associazioni, genitori, operatori mirando ad un bersaglio sensibile, questa volta non in accezione militare ma umana: i bambini.
Vincenzo Spadafora