Il mio racconto sullo sbarco di 700 persone a Reggio Calabria
Non c’è paura nel piccolo Feleg, che guarda dritto negli occhi Marco della Guardia Costiera e con le mani lo saluta come se sapesse che il peggio è alle sue piccole spalle, lontano diverse miglia dalle coste italiane. La “Dattilo”, questo il nome della nave su cui la scorsa settimana circa 700 migranti sono stati raccolti al largo della Libia, arriva in porto a Reggio Calabria poco dopo mezzogiorno: a bordo ci sono persone che arrivano dalla Siria, dall’Iraq, dall’Eritrea e dalla Somalia, tutte recuperate all’interno di due diverse imbarcazioni dalla nostra Guardia Costiera e condotte in Italia. Di questi, tanti sono minorenni e alcune donne in gravidanza. Vedere tante persone stipate lungo il ponte della nave mi crea una sensazione difficile da descrivere, a tratti anche contradditoria: perché se da una parte lo strazio potrebbe prendere il sopravvento sulla rabbia, rispetto alla disumanità di chi non comprende cosa significhi essere spinti ad affrontare un viaggio che per troppi si conclude con la morte, la felicità di poterli accogliere e dire loro “non abbiate paura, ora siete salvi” strozza in gola ogni forma di tristezza e dolore. Così come rendersi conto, dai loro stessi sguardi, che quella nave, chiamata per loro “speranza”, in porto ci è arrivata veramente. E ad accoglierli in questa terra di Calabria non c’è collera, non c’è paura, non c’è emarginazione, ma tanta solidarietà, quasi una ‘gara’ tra cittadinanza, istituzioni, forze dell’ordine e volontari.
L’ho visto con i miei occhi, fin da quando sono arrivato sulla banchina poco prima dell’attracco: ognuno era lì pronto a fare la sua parte, proprio come egregiamente era stato fatto a bordo dell’imbarcazione, mi riferisce Salvatore Denaro, comandante in seconda della direzione marittima della Guardia Costiera di Reggio Calabria. Su quella nave dove tutti non soltanto si erano occupati di portarli in salvo, ma di farli sentire protetti e accolti, qualcosa che si spinge ben oltre il lavoro, ma arriva dal profondo dell’animo di tutti gli operanti. Come nel caso di Roberto, un ragazzo di poco più di trent’anni e da circa dieci in forza sulle navi, che mi ha raccontato con il sorriso negli occhi quanta lucidità ci voglia nell’affrontare esperienze come queste, ma senza riuscire a nascondere veramente come lo sguardo di ogni bambino gli ricordi quello di suo figlio. Quel figlio che lascia a casa per salvare tanti altri figli di persone di cui non conosce neanche il nome.
Dopo aver verificato che tutto fosse pronto per l’accoglienza, dalla scaletta della nave cominciano a scendere i migranti soccorsi: tra i primi ci sono i testimoni che, individuati sulla nave, possono fornire prove e indizi per arrivare all’identificazione degli scafisti. Subito dopo donne e bambini. Per loro innanzitutto il triage, con cui il personale sanitario verifica le condizioni di salute. Come riferisce il dirigente dell’Ufficio sanitario della Questura di Reggio Calabria, Orlando Amodeo, dopo un primo controllo si stabilisce se vi siano condizioni critiche tali da richiedere il ricovero in ospedale e per le quali sono già pronte le ambulanze del 118. Fortunatamente sulla “Dattilo” non ce ne sono. Mentre sono presenti pochi casi da curare immediatamente, i quali vengono prontamente portati in una tenda a parte dal personale della Protezione Civile, coordinati da Giuseppe Alampi. Anche in questi, sotto le cuffiette verdi che raccolgono i capelli appena controllati, riesce a spuntare un sorriso. Evidentemente sanno che si sta operando per il loro bene.
Tra le persone che scendono mi saltano subito agli occhi due bambine: hanno due cappottini, uno rosso e l’altro nero, sembrano sorelle e sono accompagnate da due adulti, presumibilmente i genitori. Il loro abbigliamento per quanto rovinato dalla traversata sembra manifestare un passato quasi di agiatezza, di benessere e di cura. La stessa cura che hanno avuto nel preservare quei cappottini così eleganti da un lungo viaggio che ha salvato anche loro. Osservando l’andamento delle operazioni di controllo, ciò che mi stupisce è vedere con quanta naturalezza soprattutto le donne si lascino visitare anche da medici uomini, nonostante la loro religione sia restrittiva nel contatto con estranei di altro sesso. Ma capisco subito che il merito è sia della delicatezza nell’approccio del personale che le visita, sia di quello imbarcato, che deve essere riuscito a rompere quel muro giustificato di sospetto fin dal primo soccorso.
Tra i medici volontari ce n’è uno che mi suscita una simpatia forse anche infantile: con i suoi lunghi capelli bianchi, lo sguardo dolce e la voce ferma, mi ricorda, chiuso nella sua tuta arancione, quasi un Babbo Natale. Lo osservo mentre fa il suo lavoro, pur non essendo lui tenuto a farlo. A spingerlo deve esserci veramente un amore profondo per la sua professione e la consapevolezza di sapere che è molto più che un semplice mestiere quello del medico. Finiti i controlli sanitari è il momento del rifocillamento: il personale della Caritas, coordinato da don Nino Pangallo, si occupa di smistare succhi di frutta e merendine, e per chi ne avesse bisogno vestiti e scarpe. Alle donne con bambini piccoli ci pensa anche la volontaria Bruna, appartenente ad una delle tante associazioni cattoliche raccolte dal coordinamento ecclesiale, che aiuta le madri nel lavare e vestire i bimbi e che prendendole per mano le accompagna ai fasciatoi già improntati nella tenda. Ricordo ancora le sue parole, mi hanno colpito per semplicità e naturalezza: “Non vogliamo certo sostituirci alle autorità che hanno il loro compito. Ma pensiamo di averne uno anche noi: accogliere queste persone con un sorriso”.
E’ impressionante vedere come, nonostante ci sia l’emozione dello sbarco di oltre 700 persone, sia tanta la motivazione anche da parte dei volontari accorsi, e quanto viene ben gestita l’emergenza da parte di tutti, a cominciare dalla Prefettura di Reggio Calabria con a capo Claudio Sammartino. Me ne rendo veramente conto camminando tra le tende e guardando tutti lavorare. E’ un istante che un senso di fierezza e di orgoglio mi invade profondamente, e che vorrei con tutto il cuore che tutti sapessero quanta umanità ed eccellenza insieme il nostro Paese è capace di avere anche nell’emergenza. Curati, rifocillati e, lì dove ve ne fosse bisogno, rivestiti, vengono portati di fronte agli addetti dell’ufficio immigrazione della Questura di Reggio per essere identificati. Il dirigente e vice questore aggiunto Giuseppe Pizzonia supervisiona l’identificazione: una breve intervista per scrivere una scheda con le loro generalità e la foto per il segnalamento, sempre in presenza di un interprete che si districa da un tavolino all’altro per rendere comprensibile una lingua che per quelle centinaia di persone rappresenta una nuova vita, spesso lontana da guerre e sopraffazione. E’ dietro questa tenda che ci sono i pullman che li porteranno alle diverse destinazioni in tutta Italia, secondo il piano di ripartizione nelle varie province stabilito dal Ministero dell’Interno. Partiranno tutti, tranne i minorenni non accompagnati, che resteranno a Reggio almeno in via temporanea. Queste ragazze e ragazzi vengono riuniti sotto un altro gazebo: sono seduti vicini, si guardano intorno in cerca di risposte alle tante domande che il loro cervello elabora secondo dopo secondo. Mi avvicino loro e aiutato dall’interprete cerco di spiegargli dove sono, di rassicurarli. Hanno fatto tutti un lungo viaggio, sono stanchi e affamati, ma dopo un po’ la diffidenza si spezza in alcuni di loro che cominciano a parlarmi. E mentre i loro occhi si rianimano dalla stanchezza e dalla paura di un viaggio che per alcuni è durato anche un anno, li guardo felice sapendo che tutto è andato per il meglio. Il loro meglio, che, non va dimenticato, è lo specchio del nostro. Visto che a questo mondo esiste una sola razza, quella umana.
Vincenzo Spadafora