Lo ius soli e il senso di appartenenza: includere anziché dividere
Il disegno di legge sulla cittadinanza, approvato alla Camera nell’ottobre del 2015 e ancora in attesa di discussione al Senato, è fermo da tempo e, insieme alla legge, è sospesa la speranza per un milione di bambine e bambini, ragazze e ragazzi che crescono in Italia senza esserne cittadini
Parliamo dei figli dell'immigrazione, bambini e ragazzi nati in Italia o arrivati nel nostro Paese quando erano piccoli, che sono cresciuti qui, parlano in italiano e riconoscono l’Italia come il loro Paese: lo ius soli rappresenta un passo importante sul piano dell’integrazione delle cosiddette “seconde/terze generazioni”.
Si tratta di dare espressione al principio di non discriminazione dei bambini e degli adolescenti - sancito dall’articolo 2 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
La proposta di legge non prevede l’acquisizione automatica - per il solo fatto di essere nati in Italia - della cittadinanza italiana, ma introduce nel nostro ordinamento uno ius soli temperato, vale a dire con la previsione di alcune condizioni per accedervi: non solo che venga fatta una formale richiesta da parte dei genitori ma anche che almeno uno dei due genitori abbia un permesso di soggiorno di lungo periodo o anche che il minore abbia frequentato almeno un ciclo di studi in Italia. Interviene, cioè, sulla semplificazione delle procedure di accesso alla cittadinanza italiana per i minorenni di origine straniera nati o cresciuti in Italia.
Oggi in Italia, bambini e ragazzi che crescono, giocano, sognano e studiano insieme - frequentando gli stessi luoghi e avendo gli stessi insegnanti – hanno uno status diverso a seconda delle origini dei genitori – in risposta al principio dello ius sanguinis, crescono da stranieri in Italia e, nei fatti, finiscono per essere stranieri anche nella patria dei loro genitori.
La cittadinanza è senso di appartenenza ad una comunità, un sentimento alto, un comune sentire che oggi deve abbracciare la nuova visione di un futuro che è già cominciato: dobbiamo includere anziché dividere.
Vediamo i nostri figli giocare e studiare con i loro compagni senza porsi problemi di nazionalità ma, semmai, di simpatia e affinità, e riconosciamo quanto beneficio traggano dallo stare bene insieme: un benessere che parte dal senso di appartenenza ad uno stesso gruppo. Quel senso di appartenenza comincia proprio con la nazionalità: vi è capitato osservare i vostri figli durante una partita dei mondiali di calcio? Tifano tutti per la stessa squadra.
Filomena Albano