Intervista a Samuel Marchese, uno dei giovani "Alfieri della Repubblica"
Grazie per aver scelto di raccontare la tua esperienza. Condividerla è sicuramente utile per rendere più forti anche altri ragazzi.
Vuoi raccontarci del tuo progetto di attraversare il paese in handbike?
Tutto è nato dalla mia grande passione per lo sport ma soprattutto perché sentivo la necessità di inviare un messaggio importantissimo a tutti coloro che, come me, si trovano ad affrontare la vita con qualche difficoltà in più. Volevo capissero che la forza più grande, quella che veramente riesce a muovere tutto, non è quella fisica ma quella della volontà e della caparbietà. Volevo dimostrare loro che lo sport è per tutti.
Era già da un po’ che avevo iniziato a pensare di fare qualcosa di grande affinché questo mio messaggio potesse essere diffuso a più persone possibili; poi, un giorno, guardando lo spot pubblicitario sull’EXPO che si sarebbe tenuto quell’estate è arrivata l’idea….
Mi aveva molto colpito lo slogan che lo promuoveva: “Il cibo è vita, la vita è gioia”, uno slogan che rispecchiava il mio modo di pensare: la vita è gioia e lo può essere sempre, anche se si deve affrontare con qualche difficoltà in più. Inoltre l’evento dell’Expo2015 sarebbe stato un evento di carattere mondiale seguito da tantissime persone e quindi ho pensato di attraversare l ’Italia in handbike, partendo dalla mia cara Sicilia fino a raggiungere, in varie tappe, l’EXPO di Milano.
L’impresa poteva sembrare impossibile da realizzare, considerando tutte le difficoltà che deve affrontare chi vive spostandosi su una carrozzina. Ma era proprio questo il mio obiettivo, dimostrare che le mie difficoltà motorie, il mio modo diverso di affrontare le cose, non mi avrebbe impedito di farle. Per me era indispensabile far capire che la diversità è davvero l’unica cosa che ci accomuna tutti. Tutti siamo diversi ed ognuno nella sua diversità può e deve interagire nella società, ma affinché ciò possa realizzarsi è necessario abbattere le barriere (sia architettoniche, che mentali), che sono le sole a creare il muro d’isolamento fra noi e gli altri.
In questa avventura si sono uniti a me degli amici che come me amano lo sport e la vita;
Siamo partiti in sette: tre handbike, dei ragazzi non vedenti in tandem e altri autistici; si è aggregato alla spedizione anche un carissimo amico fotografo che ha documentato l’impresa seguendoci con i suoi pattini e il suo fantastico equipaggiamento fotografico.
Attraverso quest’avventura abbiamo voluto inviare un messaggio importantissimo e cioè che lo sport è uno stimolo, una grande palestra di vita per tutti.
Per arrivare al traguardo sono stati percorsi a forza di braccia circa 800 Km in 15 tappe, dimostrando non solo a noi stessi ma soprattutto agli altri, che tutti possiamo farcela, perché è la volontà che ci rende capaci di fare moltissime cose.
Tappa dopo tappa ho avuto l’opportunità di parlare con le amministrazioni delle città attraversate, per sensibilizzarle affinché potessero adoperarsi nel rimuovere le barriere architettoniche lungo le strade. E dentro le città abbiamo incontrato tantissime persone che chiedevano cosa stavamo facendo e ho potuto far capire loro che la disabilità sta solo negli occhi di chi guarda, infatti erano in molti ad avvicinarsi a noi con curiosità, guardavano i nostri mezzi “handbike” e non realizzavano che eravamo ragazzi in carrozzina. Poi, quando spiegavamo loro cosa stavamo facendo e perché, allora rimanevano stupiti ma anche ammirati; abbiamo fatto comprendere che la disabilità non è una qualità legata alla persona che ha la difficoltà ma è qualcosa che ha a che fare con l’ambiente che ci circonda e che purtroppo non è adeguato a dare pari opportunità a tutti, di conseguenza chi ha un problema e non trova l’ambiente privo di barriere si trova in svantaggio. Ed è dallo svantaggio che nasce la disabilità. Ho avuto anche l’opportunità di diffondere il mio messaggio attraverso i mass media che ci hanno seguito.
Sono tanti i momenti indimenticabili di questo viaggio, tante le soddisfazioni come l’incontro con Papa Francesco, e la tappa di Chiavari fatta insieme a Potestà campione del mondo di handbike, o la tappa di Matera con l’amico Trevisani che ci ha fatto scortare dagli Indian Bikers con le loro splendide moto, la tappa di Perugia con la grande fatica nel superare le salite e l’incontro con i fantastici Freebike che ci hanno scortati lungo il percorso, Imola con il suo circuito, e poi ancora Roma tra le vie della città e la sua storia scortati dalla polizia Municipale di Roma Capitale, la tappa Dynamo Camp a Limestre dove ho parlato a radio Dynamo del viaggio.
Certo ci sono stati anche tanti problemi e tante sono state le difficoltà incontrate. Siamo partiti senza nessuna certezza di poter terminare.
Fino al giorno prima di partire mancava il mezzo per trasportare le bici, l’organizzazione era certa solo per un paio di tappe poi nessuno aveva dato conferme e mancavano i fondi ma io ho insistito e ho deciso di partire nonostante tutto. Poi, giorno dopo giorno, il mosaico prendeva forma e ciò che il giorno prima era impossibile la mattina seguente diventava realtà. Anche il caldo soffocante ha cercato di farci demordere ma niente poteva farmi mollare. Tra le varie tappe ce n’è stata una davvero speciale, che non dimenticherò mai, quella di Montecatone. Siamo andati al centro di Unità Spinale per portare un messaggio di speranza ai ragazzi che erano ricoverati lì e che purtroppo si trovavano da un giorno ad un altro a dover fare i conti con la disabilità. Abbiamo portato dentro il centro le nostre handbike e abbiamo raccontato loro del viaggio che stavamo facendo e soprattutto abbiamo fatto capire che la vita, nonostante tutto, continua. In modo differente, sì, ma può offrire ancora moltissime gioie e soddisfazioni. Ricordo ancora lo sguardo incantato ed entusiasta di un ragazzo che aveva perso l’uso delle gambe in un incidente, era un ciclista, e quando ha capito che avrebbe ancora potuto correre in bici ha voluto provare la mia handbike e non voleva più scendere. È stato per me un momento indimenticabile, un’emozione forte.
Lo scopo di questo viaggio era quello di contagiare con la nostra forza, la nostra determinazione, più persone possibili invogliandole così a mettersi in gioco nello sport ma soprattutto nella vita, affinché potessero finalmente rompere quel muro, quelle catene invisibili che bloccandoli li emarginavano costringendoli a convivere con il gelo della loro solitudine.
Il nostro esempio è stato rivolto non solo alla categoria delle persone con difficoltà, ma anche a tutti coloro che pur avendo un fisico perfetto non riescono a mettersi in gioco, ed io proprio a loro voglio dire: Se riesco io a farcela qual è la tua scusa per non farlo?
Ti senti cambiato dopo questa esperienza?
Questa esperienza non mi cambiato ma ha rafforzato il desiderio di raggiungere con il mio messaggio “I can make it” il maggior numero di persone possibili.
Durante il viaggio ho capito che le barriere, quelle più difficili da abbattere, sono quelle mentali e sono radicate nell’ignoranza. Solo dimostrando a fatti e non a parole come stanno veramente le cose si riuscirà a far comprendere che noi non viviamo in un mondo parallelo, quello dei disabili che “poverini devono essere assistiti in tutto e che non possono fare molte cose”. Questo è un modo totalmente distorto di pensare alle persone con difficoltà, con pietismo e affrontando il problema con l’assistenzialismo.
Noi non siamo così, noi viviamo “nel mondo che è unico” e va reso a misura di tutti. C’è bisogno di piena inclusione e noi dobbiamo ottenere pari opportunità in modo tale da poterci mettere in gioco e dimostrare le nostre capacità. Nessun pietismo, solo la civiltà delle pari opportunità. Ma per ottenerla bisogna sradicare il concetto di disabilità che è distorto e ampiamente diffuso. Io come tanti altri come me, non ci sentiamo disabili ma soltanto persone che hanno bisogno di avere un ambiente che gli permetta di integrarsi e vivere pienamente la propria vita, non si può accettare di essere disabili incapaci di fare molte cose non per volontà o incapacità propria ma per mancanza di adeguata progettazione dell’ambiente che ci circonda.
C’è tanto da fare ancora ed io non intendo restare a guardare, infatti sto già pensando di organizzare un altro viaggio con l’handbike, questa volta vorrei partire da Mosca per arrivare a Strasburgo attraversando le capitali e le città più importanti, fino ad arrivare al Parlamento Europeo.
Intanto continuo giornalmente a sentirmi con tanti amici che mi hanno contattato dopo il viaggio verso l’EXPO attraverso Facebook, loro sono ragazzi e ragazze che hanno dei problemi e che hanno sentito della mia impresa e che mi chiedono consigli sulla handbike o anche consigli su come superare altre problematiche.
La tua forza d'animo e determinazione sono un esempio per molti tuoi coetanei. Come consiglieresti di reagire ai ragazzi vittime di atti di bullismo?
Il bullismo può essere paragonato a quello che è la discriminazione e l’emarginazione nei confronti delle persone che hanno dei problemi, “i cosiddetti disabili”. Capita, infatti, che “i normodotati” deridono, escludono, ignorano chi considerano diverso e tutto questo succede soprattutto nelle scuole; io posso parlare della mia esperienza e devo dire che fino all’età di circa 10 anni non mi ero mai sentito diverso o escluso. Andavo, anzi, i miei genitori mi accompagnavano a casa dei compagni o alle feste e non avevo mai pensato che qualcuno potesse non gradire la mia compagnia a causa delle mie difficoltà, ma poi quando le uscite hanno cominciato ad essere fatte senza genitori le cose sono cambiate e gli amici hanno chiuso un cerchio attorno a loro ed io ne sono rimasto fuori. Quando chiedevo di uscire con loro scomparivano o mentivano, e tutto questo mi ha fatto molto male, mi faceva sentire davvero diverso, come se la colpa fosse mia della mia situazione. Poi, grazie a un’esperienza fatta al Dynamo Camp, ho capito che il problema non ero io ma erano loro. Io sono sempre rimasto la stessa persona con la voglia di fare, mentre loro non avevano avuto il coraggio di mettersi in gioco e continuare la nostra amicizia. Non ero io il problema ma l’ambiente e la mentalità, ho compreso che la mia vita continuava anche senza di loro e che avrei trovato altri amici. Ed è stato così.
Quello che vorrei consigliare ai ragazzi vittime di bullismo è che non bisogna arrendersi di fronte alle difficoltà anche se sembrano insormontabili, bisogna reagire, parlarne, raccontare quello che succede in casa o agli insegnanti, confidarsi e chiedere aiuto. Non bisogna tenersi tutto dentro facendo il loro gioco, bisogna credere in se stessi e cercare di venirne fuori, perché c’è sempre una via di uscita.
Partendo dalla tua esperienza, quali suggerimenti e proposte faresti alle istituzioni per aumentare la tutela dei diritti delle persone di minore età?
Diventare grandi è un percorso lungo difficile e delicato che va sicuramente protetto e sostenuto sempre, anche se non ci sono difficoltà. Quando poi si aggiungono problemi quali discriminazione ed emarginazione, a causa delle difficoltà della persona - come nel caso delle disabilità -, allora sì che le cose si fanno davvero complicate. La tutela di questo periodo importantissimo della vita è indispensabile perché dalle esperienze che saranno fatte in questa fase verrà fuori l’adulto che formerà la società di domani. E nel caso del bambino con problemi, il percorso fatto in questo periodo - in tanti casi - farà di lui una persona inserita e attiva che vive pienamente la sua vita e che non pesa sulla società ma che anzi contribuisce pienamente nel mondo del lavoro e della vita sociale, oppure il disabile senza alcuna autonomia che necessita assistenza totale, nonostante le sue potenzialità residue.
Io personalmente, in base alla mia esperienza, suggerirei alle Istituzione di iniziare nel permettere a tutti i bambini e adolescenti di avere le stesse opportunità di crescita sia nella fase ludica, quindi parchi gioco inclusivi, asili accessibili, personale qualificato anche in caso di problemi specifici, sia nella fase di formazione come scuole e università accessibili, laboratori fruibili da tutti, mezzi di trasporto accessibili, gite scolastiche inclusive, insegnanti preparati a monitorare e correggere, in caso di necessità, comportamenti di discriminazione. Infine, ma non meno importante, per la formazione degli adulti del domani c’è l’attività di socializzazione attraverso locali accessibili, marciapiedi con scivoli e in generale attraverso un mondo a misura di tutti per avere pari opportunità. Inoltre è indispensabile, dove ci sono bambini troppo piccoli o bambini e adolescenti che sono particolarmente fragili, immettere dei controlli validi (telecamere) affinché questi vengano davvero tutelati.
È importante secondo il mio parere e la mia esperienza tutelare i minori - soprattutto se con problemi - anche dai loro stessi genitori, che spesso per troppo amore, tengono i propri figli sotto una campana di vetro privandoli di tutte quelle esperienze che sono necessarie a crescere, a non sentirsi diversi ma parte del mondo, e acquisire così autostima e coscienza delle proprie capacità; Ma certamente i genitori dovrebbero essere aiutati a comprendere tali esigenze.
Un’altra cosa molto importante a mio parere sarebbe organizzare - per i giovani e anche gli adulti - seminari, convegni, attraverso i quali si possano abbattere le barriere mentali di cui prima parlavo, e questo dovrebbe essere fatto mettendo in gioco l’esperienza diretta delle persone con problemi che sono riuscite nonostante tutto a farcela. Anche io nel mio piccolo ho organizzato convegni, il primo l’ho tenuto nella mia scuola, il liceo scientifico O.M.Corbino di Siracusa; si potrebbero organizzare anche visite in luoghi come Dynamo Camp, realtà dove si può constatare con i propri occhi come le barriere architettoniche e mentali possono essere abbattute, portare la loro testimonianza i lori risultati tutto ciò farebbe di sicuro bene a chi ancora oggi vede due mondi paralleli quello dei disabili e quello dei normodotati.